mercoledì 13 giugno 2012

non nuocere


Siamo qui dalle 7 di stamattina. Qualcuno anche da prima, se arriva da fuori Roma. E' uno degli ospedali più grandi, un policlinico universitario, garanzia di essere seguiti adeguatamente sia per le mamme che per i bimbi nella pancia. Oggi siamo tante, 19 in tutto al day hospital di patologia ostetrica. Nessuna è qui solo per una visita, nessuna è qui senza motivo; molte sono qui per monitorare la loro salute, molte altre sono qui per monitorare quella di un bimbo che non sanno come e se nascerà.
Sono ormai le 15, sono passate tante , troppe ore di attesa vuota perchè il centro ecografico del reparto di diagnosi prenatale è chiuso proprio in questi giorni per ristrutturazione, quindi le ecografie le gestisce il piano di sopra, dove però hanno la precedenza sui day hospital tutte le esterne che vengono con l'impegnativa e il ticket per un controllo di routine. Ed evidentemente oggi erano tanti..
Noi 4, che siamo le ultime tra le ultime, finiamo fanalino di coda, quantunque lunga sia questa coda. Ci mandano su, cartella clinica in mano, da sole. L'ho fatto tante volte questo corridoio, lo conosco a memoria. Penso a chi lo fa per la prima volta, da solo, quanto si sente spaurito e con quale attesa percorre questi 40 metri. Mi volto a cercare gli sguardi delle mie colleghe di ecografia. Se il pavimento fosse verde a precederci sarebbe un grido: "dead man walking". Non leggo speranza , non leggo attesa. Non leggo niente di niente oltre la stanchezza cosmica di sette ore passate ad aspettare il proprio turno.
Il corridoio è ormai vuoto, prendiamo posto di fronte alle pareti tappezzate di frasi di benvenuto per i piccoli nati: la sala parto è vicina e incurante degli avvisi che invitano a non imbrattare i muri, la gioia incontenibile dei parenti sta scritta ovunque con penne rosse nere e blu. Due mamme parlano nervosamente, un'altra legge le scritte senza interesse, un'altra guarda il vuoto di fronte a se. Di fronte a lei in realtà ci sono io, ma lei non mi vede: sta guardando alle mie spalle. Un'infermiera annuncia chi sarà la prossima a entrare: era una delle due che parlavano che scatta in piedi come se non fosse mai stata impegnata a fare altro. Di fronte a lei l'altra ammutolisce e resta inebetita a bocca aperta. Sento distintamente la pesantezza di questo silenzio. La mamma che leggeva le scritte si è fermata in piedi in mezzo al corridoio, l'altra seduta di fonte a me inizia ad oscillare sulla sedia tenendosi una mano con l'altra mentre guarda il pavimento. Tutto senza più emettere suono.
Esce da una stanza una ragazza. Un medico le si avvicina circondato dai tanti specializzandi che qui costituiscono il codazzo fisso. Le parole del medico rimbombano nel silenzio per quanto parli con noto pacato, certo a voce normalissima. "ho visto gli esami.." dice. In barba alla privacy mi rendo conto di essere attentissima a quello che viene detto, mi sembra di avere i sensi amplificati al di là della mia indole personale: osservo tutto. Credo sia una reazione di paura. Il medico chiede alla ragazza "tu come ti senti?" e quella scoppia a piangere, incurante dei tanti camici bianchi che la attorniano. Noto la differenza di scuola: l'anziana dottoressa la fa sedere, si accomoda vicino a lei le tiene la mano e la ascolta raccontare la sua storia clinica. Ho l'impressione l'abbia già raccontata centinaia di volte. Non capisco una parola di cosa stanno dicendo e non mi interessa; guardo invece gli specializzandi, maschi e femmine; sono indecisa se non capiscano manco loro cosa sta dicendo la ragazza o se siano deficienti: non hanno alcuna espressione in faccia. La professoressa di espressioni ne ha e sono tutte coordinate con il pianto della ragazza. Entrano tutti in una stanza per un'ecografia: la prof, la ragazza, gli specializzandi.
Restiamo di nuovo nel silenzio. Esce la prima chiamata, dalla sala ecografia. Mi guarda sorridente, deve essere andato tutto bene. Recupera la sua cartella clinica e se ne va. Chiamano la mamma di fronte a me; ha un gemito, non se l'aspettava credo, si alza nervosamente e si avvia nella stanza. Escono intanto dall'altra porta le specializzande con in mano le immagini ecografiche della ragazza di prima. Una dice "poverina!" un'altra esce dalla stanza adiacente, chiede informazioni, guardano insieme le ecografie, una spiega all'altra, l'altra si mette a ridere. La prima commenta "ma daiiii!". Che squallore. Immagino se fanno così con tutte, se siamo tutte oggetto di risate diagnostiche. Penso a quanto questo sia scorretto in generale ma tanto più di fronte a noi.
Esce anche la mamma che sedeva di fronte a me. Cammina lentamente, tre, quattro passi che la separano dalla panca. Si siede di nuovo, incrocia il mio sguardo, le sorrido. "tutto bene?" chiedo, sapendo benissimo che qui dentro non va mai tutto bene. "si...per quello che è possibile..."risponde lei ricambiando il mio sorriso. "il bimbo ha un'ernia diaframmatica" mi dice."dovrà essere operato subito appena nasce". mi fa il nome del chirurgo che lo opererà; lo conosco bene, ha operato un figlio mio e l'ho visto a lungo in tin quando è nata la mia ultima. Le dico che è bravo, tutti ne parlano bene, mi sorride. "vedere lui tranquillo mi tranquillizza". Ecco, potere dei medici: dare la vita in una maniera che decisamente non immaginano visto la facilità con cui la tolgono: il ghignetto ironico, la risata fuori posto, oppure un'espressione rassicurante. Le restituiscono la cartella clinica, torna su anche lei. Restiamo solo in due, la mamma in piedi davanti a me che legge le scritte sui muri; io.
Lei è qui perchè il bimbo ha un problema grosso a un rene. Idro uretro nefrosi, mi ha detto. Non so bene neanche cosa sia. Lei che parla benissimo italiano ma è straniera, lo sa meno di me. Ha uno sguardo triste, ha paura, giustamente. Nessuno le ha spiegato niente, me l'ha raccontato di sopra in sala di attesa.
Mi chiamano, entro.
Sono quasi le 16.
Mi fanno preparare, mi accomodo per l'ecografia. La sensazione di avere i sensi acuiti si accentua: sto cercando di gestire l'ansia. Non dovrebbero dirmi niente, eventualmente confermarmi cose che già so. Mi ha sempre colpita in questa gravidanza la carenza comunicativa medico paziente: ecografie lunghissime fatte in silenzio totale. Ma non ero preparata al fatto che girassero il monitor per non farmelo vedere. Chiedo di poter guardare. La risposta è altrettanto inattesa "l'importante è che guardiamo noi signora, mica è il cinema". Normalmente ci starebbe un insulto, di rimando. Trovo così inopportuna, violenta la risposta, che scelgo di non scendere allo stesso livello e stare zitta e osservare. Osserverò loro, se non posso guardare il monitor, voglio sapere che razza di bastarda è una che, a una madre in patologia ostetrica che sta lì per sapere quanto sta male suo figlio, non per fare un filmino ecografico della sua pancina, dà una risposta del genere.
Così la osservo. Corruga la fronte, sgrana gli occhi. Entra la collega. La prima indica il monitor l'altra stringe le palpebre per capire cosa le si sta indicando. Silenzio, non dicono niente. Non mi guardano. Io sì, invece , continuo a guardarle. La mimica muta può rappresentare tutto e niente. Mi sento magnanima, e in realtà vorrei sapere se stanno guardando quello che penso io. Qualcosa non torna? domando con tono calmo. La risposta mi coglie di nuovo con stupore "signora, non è tempo di domande! fuori c'è una paziente che aspetta sa?" stavolta non gliela passo: "finchè sono dentro sono io la paziente, è il mio tempo di domande e il mio tempo di risposte." Sono visibilmente seccata. Non serve a niente la mia protesta: non ottengo risposta , fanno come se non ci fossi. Commentano che non m'hanno mai vista prima lì in ecografia rispondo che solitamente mi seguono in patologia e diagnosi prenatale e aggiungo tutta un'altra professionalità. Mi guardano male. Mai quanto le guardo male io. Finiscono bruscamente l'esame, mi mandano via. Uscendo incrocio l'ultima mamma rimasta, che come mi vede mi viene incontro per prendere il mio posto. Quando mi passa vicino le dico "sono due stronze e non ti faranno vedere il bambino." mi guarda allibita sgrana gli occhi come non capendo. Le faccio il gesto "ti voltano il monitor". Ancora più allibita apre la bocca e così resta continuando a camminare dentro la stanza. Quando esce si siede e piange. Voleva vedere suo figlio: non gliel'hanno mostrato. Voleva sapere di suo figlio; non era tempo di domande e quindi neanche di risposte.
La sera con mio marito rifletto su queste cose, penso al fatto sicuramente sarò stata una delle poche a osare ribattere se non l'unica; al fatto che il medico perdendo l'umanità nei confronti del paziente ha perso grande parte della sua vocazione medica e con la sua vocazione il suo ruolo. Questo medico impersonale che vorrebbe solo "ottimizzare il suo tempo", solo sbrigarsi, evitando di entrare in collusione col paziente è facilmente sostituibile da una macchina e così scrive la sua condanna.
Sempre più penso che i genitori devono avere la spalle larghe, la risposta pronta, la competenza pure sulla diagnosi che certo non spetta a loro; penso che devono avere tanto chiara la dignità del bambino che portano dentro ed essere armati ben bene per difenderlo. Risalendo in sala di attesa con la mia cartella reincontro la mamma dell'ernia diaframmatica. Mi guarda, stavolta è lei a salutarmi col sorriso e mi dice "questi figli prima ancora di nascere ci fanno preoccupare!" sto ancora cercando di digerire gli sguardi di quelle due in ecografia ma col massimo della calma provo a risponderle.
"vediamo le cose dal nostro punto di vista, come se fosse tutto un problema nostro..diciamo ci fanno preoccupare..ed è vero siamo preoccupati. Ma il problema più grande ce l'hanno loro: noi una preoccupazione da genitore , che è normale.. per loro è la loro vita, pensa come sono preoccupati loro, così piccolini.." annuisce.. le esce un "eh già".. vorrei farlo vedere a quelle due imbecilli di sotto, quel "eh già" loro tanto preoccupate del tempo da perdere che avevano l'occasione di usarlo per qualcosa, per amore, di riconoscere la sofferenza di una madre. Come se non sapessero che dalla tranquillità della madre dipende anche il benessere del bambino come se non sapessero che in quei momenti per un genitore spaventato loro col camice rappresentano dio in terra. Che forse ci vorrebbe un corso universitario apposito per spiegare il significato profondo di "non nuocere".

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